Cinema di immagini, arte e soprattutto di mistica quello di Lech Majewski, tanto più in VALLEY OF THE GODS dove il regista visionario polacco mischia denaro, mito, uranio e cultura Navajo. Il film racconta la storia dell’uomo più ricco del mondo, Wes Tauros (John Malkovich), dal carattere molto eccentrico e solitario. Un uomo che ama l’arte come la scienza e la modernità e con un passato di dolore familiare che a un certo punto decide di fare scavi per la ricerca di uranio. Solo che c’è un problema non da poco: le miniere sono all’interno delle terre sacre del popolo Navajo, terre inviolabili che potrebbero riportare in vita entità senza controllo.
La storia di questo magnate ricco e raffinato si intreccia poi con quella di John Ecas (Josh Hartnett), scrittore quarantenne che dovrebbe raccontare la sua storia. Un intellettuale, pieno di insicurezze, alla ricerca di se stesso e da sempre alle prese con il mistero della vita che si ritroverà a seguire le vicende del più che concreto Tauros come ad essere il testimone di fenomeni misteriosi, legati agli antichi guardiani di queste terre, risvegliatisi per proteggere i Navajo.
Il fatto è che la valle dove si sta scavando, secondo questo popolo, rappresenta i piedi della montagna, e senza questi tutto rischia di crollare.
“I Navajo erano molto riluttanti a parlare con noi – spiega il regista nell’incontro stampa in remoto -. Ma nonostante questo li ho incontrati più volte e ho iniziato a stringere rapporti con loro. Ho scoperto così che la loro vita interiore, la loro spiritualità è ricchissima e inversamente proporzionale alla loro povertà. E questo in un’area geografica, con la Silicon Valley, Las Vegas, Palm Springs, dove puoi incontrare le persone più ricche del mondo, ma del tutto prive di spiritualità”.
E ancora sui Navajo: “Sono molto orgogliosi di questo film. Uno dei loro capi mi ha detto che questo è il primo lungometraggio di un uomo bianco che racconti la loro prospettiva, il loro modo di essere. Il fatto è – continua il regista – che loro vedono il mondo non solo in una prospettiva logica, di causa ed effetto, ma con qualcosa di più”.
Dopo ‘Il giardino delle delizie’ (2004), ispirato all’omonimo quadro di Bosch e I colori della passione – ‘The Mill & The Cross’ (2011), viaggio nel dipinto epico di Pieter Bruegel ‘La salita al calvario’, l’artista, poeta, pittore, compositore, scrittore, produttore, regista teatrale e film maker polacco, Lech Majewski, si misura in questo film altamente evocativo.
“Ovviamente, ci sono molti livelli di letture – dice -. Il tema ricorrente è l’amore e la perdita, ma con immagini, suoni e strati di significati. Ci sono insomma dei veri e propri meccanismi di regia che puoi applicare per far sentire alle persone quello che vuoi che provino: spaventarle o farle ridere.
Credo che ci sia un modo per comunicare a livello inconscio. Mi sono imbattuto nella descrizione dei miei film come “poesia visiva”, e di certo non se ne vanno con un big bang come i blockbuster, che esplodono e poi svaniscono. Hanno continuità e rimangono a lungo nei ricordi degli spettatori”.
E conclude Lech Majewski: “Volevo come mostrare lo stupro della Terra Santa. Sappiamo ora tutti che i Navajo furono vittime della polvere di uranio, che chiamarono il “mostro giallo”.
Quella polvere li stava uccidendo, li stava facendo ammalare, ma il governo non li ha certo aiutati. Uno degli uomini della tribù mi ha detto: “Sei come noi, Lech. Noi, come te, non vediamo il mondo attraverso fatti e cifre, ma attraverso la sua anima”.
(ANSA).